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Mario Nigro e la nipotina MARIO NIGRO

Una vita dedicata all'Arte

SITO UFFICIALE DELL'ARTISTA
a cura di
Gianni Nigro
Presidente dell'Archivio Artistico Mario Nigro
Gianni e Mario Nigro al mare



Spazio Totale



BIOGRAFIA
scritta da Gianni Nigro

Mario Nigro, ancora giovane, 1949

Mario Nigro, nel 1947, con la futura moglie, Violetta



Gianni Nigro Talvolta ho come la sensazione che da un momento all’altro il telefono debba squillare. Poi mi rendo conto che mio padre non è più qui. Da tanti anni. E tento di rilassarmi. Di pensare ad altro.
Sì. Mio padre. Che aveva per me un amore quasi ossessivo e mi telefonava più volte al giorno, dovunque mi trovassi, almeno laddove esisteva un telefono, perché ancora il mondo non era invaso dai cellulari. Stava in pensiero, temeva mi fosse successa qualche cosa, e mi telefonava. Sentendo la mia voce, finalmente si tranquillizzava.
La famigliola di Mario Nigro in gita in campagna, 1958
     La sua insicurezza derivava da un’infanzia difficile, ma non in senso economico. Aveva, fin dalla nascita, un difetto alla voce, e la famiglia, che sentiva l’accaduto quasi come una colpa, tendeva a rendergli il difetto ancora più pesante. E poi i compagni di scuola, i ragazzini, si sa, spesso, nella loro tanta decantata ingenuità, possono essere spietati.
Tutto ciò aveva contribuito a renderlo particolarmente insicuro, e le due certezze della sua vita erano diventate, col tempo, la sua passione per l’arte, e me, il suo unico figlio, con il quale aveva stabilito un rapporto fortissimo.
     Proprio la sua ultima notte la passammo assieme, ma quasi per un nulla avremmo potuto perdere quella possibilità. Mi trovavo infatti in Romagna, in pieno agosto, presso la casa di campagna dei parenti di mia madre, quando mio zio telefonò di andare subito a Livorno.
Precedentemente ero rimasto al suo fianco all’ospedale per più di dieci giorni, poi sembrava avesse avuto un miglioramento. Si era rimesso in piedi. E mi aveva chiesto di passare da Milano per ritirargli qualche soldo, essendo rimasto a secco. Da Milano avevo raggiunto mia madre, per una breve visita, visto che le condizioni di salute di mio padre sembravano decisamente buone, rispetto a prima. Ma tutto precipitò all’improvviso.
     Partii dalla Romagna alle nove di sera, e passando da Bologna e da Firenze, restando sempre in autostrada, riuscii a raggiungerlo prima di mezzanotte. Vidi nei suoi occhi l’insieme di felicità nel vedermi, e di tristezza infinita, perché probabilmente sentiva che erano le ultime ore.
     Dopo una notte tremenda, in cui non riusciva più a compiere i normali atti respiratori, si spense lentamente, come la fiamma di una candela sotto a un bicchiere. Rannicchiato, sempre più avvolto in sé, come un passerotto sparato. E alle sei e un quarto della mattina mi allontanarono dalla stanza. Poi uscì nel corridoio un medico, e mi disse che era spiacente ma non c’era più nulla da fare. «Suo padre», concluse laconicamente il medico, «non è più vivo.»
E mi sentii mancare la terra sotto i piedi.



Terrazza Mascagni a Livorno
Foto di Juanita Trinidad





La presenza invadente degli Spedali Riuniti di Livorno nella vita di Mario Nigro Per tutta una serie di casualità, la vita di Mario Nigro, e di conseguenza dei suoi familiari più stretti, ruota attorno al non molto gradevole edificio bianco degli Spedali Riuniti di Livorno.
Qui Mario Nigro trovò il suo primo impiego, il primo e l’ultimo, visto che, una volta licenziatosi, restò rigorosamente attaccato alla sua vita d’artista.
Qui Mario Nigro ebbe il suo unico figlio, Gianni Nigro, nato in un assolato e caldissimo giorno d’agosto per taglio cesareo.
Qui la moglie di Mario Nigro, Violetta, nel 1959, si operò di appendicite, evento apparente di ben poca importanza, ma di una comicità straordinaria. Violetta partì da Milano per Livorno in treno, per subire meno scosse all’appendice infiammata. Mario Nigro decise di portare la macchina (una Seicento) a Livorno e suo figlio (il sottoscritto, Gianni Nigro) non esitò ad accompagnarlo. Prima di Fornovo mario nigro si intestardì a fermarsi per appostarsi su un terrapieno non distante dalla ferrovia, sicurissimo che dal treno (che si chiamava La Freccia Azzurra) Violetta si sarebbe sbracciata dai saluti, riconoscendoci dal finestrino. Tale tentativo andò completamente fallito. La dolce consorte di mario Nigro dormiva, forse, in quel momento, o addirittura aveva il finestrino dalla parte opposta. Fatto sta che Mario Nigro, avendo forzato notevolmente il motore della Seicento, alle prime rampe della Cisa lo vide prendere fuoco e tornò, in discesa, dal meccanico, che lo riparò lavorando alacremente per due ore.
Qui, infine, sempre negli Spedali Riunito di Livorno, Mario Nigro si spense, alle sei e un quarto dell'undici agosto del 1992.
OPERE
La madre Pisana, amante delle polemiche, tutti i pomeriggi spesi per gli altri in organizzazioni di beneficienza, piccola, occhi azzurri era una di tre sorelle. Non aveva potuto frequentare la scuola (altri tempi) e non sapeva né leggere né scrivere ma pare fosse veramente carina esteticamente, e sapeva cucinare divinamente bene...
Il padre Figlio di un notaio che aveva avuto un numero elevatissimo di eredi (forse undici?) aveva già molti fratelli più grandi che, avendo intrapreso studi giuridici, avevano prenotato un posto nello studio notarile paterno. E poi, in tutta sincerità, non era certo il mestiere che faceva per lui. Alle beghe tra esseri umani, preferiva le astrazioni quasi metafisiche della matematica, aggregate e contenute dalle certezze sperimentali della fisica...
Mario Nigro, pittore Mario Nigro amava ripetere che del successo non gliene importava assolutamente nulla. Era costretto, così diceva, a cercare di fare le mostre, di essere notato dalla critica, a sforzarsi per ottenere di essere invitato alle manifestazioni pubbliche importanti come la Biennale, perché solo in tal modo gli era possibile vendere qualche quadro e quindi riuscire a dedicarsi anima e corpo al dipingere.
Insomma, per poter fare il pittore, come diceva lui, era necessario essere qualcuno, avere un nome, farsi largo nell’ambiente.
Essere un artista a tempo pieno ha sempre un costo molto alto. Anzitutto aveva lasciato un impiego sicuro, quello di farmacista degli Spedali Riuniti di Livorno e quindi affrontare, con una famiglia a carico, l’incertezza economica.
Mario Nigro a Livorno, 1958

Per fortuna venne in suo soccorso la moglie, che, anch’essa farmacista, ma più duttile nel mondo del lavoro, e avendo la conoscenza della lingua inglese, riuscì ad impiegarsi nella ditta farmaceutica Lepetit, e per un lungo periodo si sobbarcò l’onere di mantenere tutta la baracca.
     Per Mario Nigro vendere anche un solo quadro era una lacerazione. Quando riusciva a vendere un quadro, era forse più il rammarico che la felicità. Per Nigro staccarsi da ogni opera gli costava un grande dolore. Del resto amava ripetere che i quadri erano come figli.
     Mai, comunque, aveva dimenticato quanto fosse stato difficile per lui, negli anni Cinquanta, conciliare il lavoro di farmacista con la passione per la pittura. E fare il mercante della propria opera era il prezzo più duro da pagare.
     Già, perché forse ai non addetti ai lavori sfugge questo dettaglio, non indifferente. Fare l’artista non è soltanto mettersi al cavalletto, o al tavolo, o alla parete, o al proprio posto di creazione e creare. Quella sicuramente è la parte piacevole, è l’angolo dorato. Ma poi il prodotto va venduto, se si vuole sopravvivere, se non si ha o non si desidera avere un secondo lavoro. E in alcuni mestieri, per vendere il frutto della propria attività, è necessario raggiungere un minimo di successo.



Biografia sintetica Ultimo di quattro figli, in tutto tre maschi e una femmina, manifesta fin dall’infanzia una spiccata predisposizione per la musica, chiedendo e ottenendo di ricevere lezioni di violino. Le condizioni economiche della famiglia non gli permettono, tuttavia, di proseguire lo studio dello strumento, che pure aveva dimostrato di seguire con successo. Durante l’adolescenza riversa questo suo bisogno di attività creative disegnando, su qualunque supporto gli capitasse a tiro.
     La sua bravura a scuola si concretizza in un percorso universitario eccellente. Si laurea a pieni voti in Chimica a Pisa e viene assunto dall’Università come assistente di Mineralogia.
     La guerra, però, incalza, e ogni attività viene sospesa. Nel dopoguerra la madre, lo spinge ad iscriversi a Farmacia, forse anche per la paura di veder partire il figlio per altri lidi, alla ricerca di un lavoro. Alla facoltà di farmacia Antonio, da tutti chiamato col secondo nome di Mario, incontra la sua futura sposa. Diventa farmacista agli Spedali Riuniti di Livorno e nello stesso ospedale nasce il suo primo ed unico figlio, Gianni Nigro.
     Se di giorno miscela polverine al bilancino, di sera e alla domenica si dedica alla sua ormai unica grande passione: la pittura. E nel 1958 decide di abbandonare definitivamente l’impiego per poter raggiungere spesso il fratello, già a Milano da anni, e lì frequentare le gallerie, dove, tra gli altri, conosce Gillo Dorfles e frequenta movimenti artistici d’avanguardia.      Nel 1964, anche grazie all’amicizia dell’artista argentino Lucio Fontana, è invitato alla Biennale di Venezia, dove tornerà, quattro anni più tardi, con una stanza interamente dedicata a lui. Alla fine degli anni Settanta la città di Milano lo gratifica di una personale al PAC, e verrà invitato altre due volte alla Biennale. La sua scomparsa avviene l’undici agosto del 1992, dopo una lunga malattia.

Milano, Viale Certosa, anni Sessanta
Mio padre Da quando, poco più che ventenne, avevo spiccato il volo dal nido d’origine, mio padre e io avevamo il nostro momento esclusivo, il nostro angolo segreto (si fa per dire) alle dieci di mattina di ogni domenica, puntuali come un cucù svizzero, per parlare e sparlare del mondo, per sentirci, per un paio d’ore, nuovamente padre e figlio, ma ancor più amiconi e complici.
     Mi stringeva la spalla, con la sua mano, con quella mano decisa e ferma con la quale proseguiva a darmi, negli anni, la forza di avanzare, quel minimo di forza di cui avevo ancora bisogno, di cui avevo sempre nuovo bisogno, come se quella prima volta, in un pomeriggio novembrino, col sole orizzontale, tirrenico, che entrava polveroso nella stanza, come se quella decisiva intensa volta, non fosse poi stata del tutto sufficiente.
     Mio padre, se vogliamo, poteva essere definito un diversamente abile, affetto dalla nascita da palatoschisi (la mancata fusione delle ossa del palato).
Emarginato nella stanza più nascosta della casa dai pregiudizi vecchi e fatiscenti e dagli assurdi e infondati sensi di gravi colpe dei genitori con un figlio nato male,in quella opprimente e umiliante condizione di emarginato, sviluppò una grinta geniale che lo spinse alla fame del sapere, alla sete del fare.
     Studiò violino, pianoforte, prese due lauree scientifiche, fu assistente universitario di mineralogia, e intanto utilizzava cartoni come supporto per dipingere, con tubetti spremuti e violati da decise pennellate, tentativi macchiaioli non convinti. Scienza e umanesimo, per lui, erano conviventi possibili.
     Convinto di non potersi esprimere pienamente con una voce distorta dalla malformazione del palato, cercò con ansia, con rabbia, nuove forme di comunicazione, finché, dapprima goffamente, poi con sempre più illuminata limpidezza, provò, proprio con la pittura, a trasmettere il suo sentire, a darlo a larghe mani, col progredire delle sue scelte artistiche, esprimenti la sua sempre più ampia Weltanschauung, definendone di volta in colta, i confini estremi, finalmente infiniti.
     Ma l’altra qualità necessaria era la sua coraggiosa determinazione, contro ogni conformismo, contro ogni pregiudizio, contro ogni meschinità, contro ogni miopia mentale, contro ogni pigrizia intellettuale, contro ogni allineamento opportunistico.
con il suo determinato coraggio, riuscì a comunicare, al di là di ogni limite biologico.      Quando si spense, lenta, lentamente, come la fiamma di una candela sotto a un bicchiere, rannicchiato, come un passerotto sparato, mi sembrava di vivere in un film bianco, come le pareti e i corridoi e le ruvide lenzuola dell’ospedale, dello stesso ospedale in cui ero nato e dove mio padre aveva travagliato e imprecato per dieci interminabili anni, bianco marmoreo, come il bianco di quella lontana vicina alba di agosto, finché mi parve che le mura dell’ospedale mi crollassero addosso.
     Poi, in pratica, si sopravvive.
Gianni Nigro

Nato a Pistoia. Nel peregrinare della Famiglia lungo tutto l'arco della Toscana del nord, alla ricerca di una cattedra stabile per il Professor Gabriele Nigro, praticamente di passaggio Antonio Mario Nigro nasce nello stupendo borgo di Pistoia, città della quale andrà orgoglioso per tutta la vita e che gli renderà grandissimi onori con una Personale memorabile... Un’infanzia difficile L’infanzia di Mario Nigro, trascorsa di casa in casa, di trasloco in trasloco, tra Pistoia e Arezzo, tra Lucca e finalmente Livorno, non fu facile. Se la sorella lo proteggeva maternamente, non sempre i due fratelli maggiori erano benevoli con lui, ma soprattutto subiva l’emarginazione dovuta a una malattia congenita: la palatoschisi...
Livorno. La città di Livorno, dopo il lungo peregrinare per la Toscana al seguito della famiglia, divenne infine la sua querencia, la sua patria adottiva. Qui, nella città labronica, diventò un giovanotto, studiò alle Medie e al Liceo, visse gli anni al tempo stesso spensierati e tormentati del passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza e poi le epoche successive. E anche dalle tradizioni culturali di quella città seppe trarre ispirazione ed eventualmente lo spirito di ribellione sufficiente per andare oltre, magari contro... Adolescenza Antonio Mario Nigro, a scuola, era bravissimo. O lo fu non solo per tutta l'adolescenza ma anche poi all'Università.Tuttavia non erano i libri la sua vera passione, ma piuttosto la musica, i colori, e quando sua sorella gli regalò una scatoli di tubetti a olio, per lui fu l'illuminazione. Nacquero subito, sopra ogni tipo di supporto possibile, dipinti in stile macchiaiolo, ritratti, nature morte, marine e pagliai...
La Laurea. All’Università si distingue per brillantezza e intelligenza, e si laurea nello stesso giorno in cui prende l’ambito titolo l’ingegner Braschi, suo grande amico. Si era distinto anche nelle squadre sportive universitarie, nell’hockey su prato e soprattutto nel rugby. Per tutto ciò, lo chiamavano il cannone... Mineralogia. Parallelamente a qualche timido tentativo di esporre le sue opere, ottenne l’incarico di Assistente alla Facoltà di Mineralogia, sempre all’Università di Pisa. Tale esperienza, però, venne brutalmente interrotta dall’avvento della guerra, iniziata dapprima solo nei proclami retorici dei capi del Regime, poi arrivata all’improvviso con tutta la violenza di ogni guerra…




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Gianni Nigro


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