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Quando lo andavo a trovare allo studio, in via Brera, al sesto piano, mi voleva rifocillare per
le energia spese per essermi fatto sei piani di scale consunte in quell’autentico labirinto che era la casa
di ringhiera, preparando il tè per entrambi e inzuppandoci dentro i crackers.
E, tra un cucchiaino e l’altro di quella zuppetta, amava abbandonarsi ai ricordi,
puntando coi suoi occhi verso qualcosa di lontano, che era oltre le bianche pareti dello studio. E rivedeva l’infanzia, gli
anni giovani, l’Università, i primi dipinti.
Riporterò qui quegli episodi, del resto già accennati nella Biografia, ma narrati in tono meno
tecnico, più confidenziale, più stilisticamente vicino a quell’atmosfera trasognata
che permeava queste sue narrazioni.
L'infanzia di Mario fu tranquilla. Vecchie foto ingiallite lo ritraggono paffuto e vestito da
bambina, come talvolta si usava a quei tempi, indossando per ghembriulino gli abiti smessi
della sorella. E, come spesso era tradizione presso le famiglie borghesi dell'epoca, fu avviato
allo studio del violino. Ma suo fratello maggiore, cleptomane da sempre, si appropriava di tutti
i suoi oggetti, violino compreso, ed essendo dotato della delicatezza di un elefante, gli
rompeva tutto.
Interrotta così, per deperimento dello strumento, la sua navigazione nella
musica, Mario, che sentiva dentro il prorompere di una creatività non reprimibile, ripiegò
sul disegno. Una matita e una superficie su cui disegnare si trovava sempre. Il passaggio
ai colori, poi, è naturale conseguenza.
A Livorno tutti dipingevano. Non a caso il movimento pittorico dei Macchiaioli aveva trovato
colà il suo nido. Dipingere era l'hobby per eccellenza. Viale Italia, dall'estremità
sud del porto fino ai litorali dell'Ardenza e di Antignano, una tutto un pullulare di uomini
al cavalletto a dipingere marine e vegetazione mediterranea.
Ormai giovanotto, più che mischiarsi con gli altri pittori sul lungomare, dove i passeggianti
si soffermavano a osservare le tele e a commentare, preferiva legare il cavalletto alla canna
della bici e pedalare alla bersagliera verso le vicine colline, per ritrarre i casolari toscani e
i cipressi.
La pittura, in famiglia, non era ritenuta una cosa seria. Una solida facoltà scientifica era
l'unico sbocco possibile. Meglio se Matematica, come il padre, come avevano fatto i due
fratelli maggiori. Però Mario era un bastian contrario e se proprio non poteva ribellarsi del
tutto, poteva almeno diversificarsi di un po'. Così si iscrisse a Chimica.
«O questa?» diceva sua madre. «A che serve? A giohare al piccolo himico!»
Per la povera donna, alla quale il professor Gabriele Nigro aveva dovuto insegnare a leggere e
scrivere, fare Chimica era come fare Filosofia, anzi peggio. Almeno con Filosofia
avrebbe potuto insegnare. Le spiegarono che comunque anche con Chimica avrebbe potuto
ripiegare sull'insegnamento. In realtà sòra Giulia temeva che il figliolino emigrasse verso le
industrie del nord. "Insegnare? Con quella voce?"
Lui intanto, a Chimica, diventò bravissimo. Dava un esame dietro l'altro a suon di trenta e lode e lo
chiamavano il cannone. Ma ogni qual volta poteva, montava in bicicletta e raggiungeva le sue colline
per dipingere en plein air. E se proprio pioveva, si rinchiudeva in casa da qualche parte a ritrarre
nature morte, affinando un'abilità da vero manierista. Lo testimoniano alcune
tele diciamo alla Caravaggio con tanto di fruttiere in cristallo con uva e fichi,
fruttiere luglienghe dipinte
con una tecnica e una maestria da far impallidire qualsiasi allievo sfornato dall'Accademia.
Il cannone primeggiava anche nello sport. Naturalmente, a livello universitario. Rugby, hockey su
prato. E poi a Livorno interminabili partite di calcio a Barriera Roma o di pallacanestro ai Bagni
Pancaldi d'estate. E sempre in estate, nuotate e tuffi da maggio a
ottobre inoltrato. Non tutto ma di tutto, insomma e d'altronde che altro restava da fare nella
casta e repressiva Livorno, in quella provincia soffocante in cui anche solo un Modigliani si
era sentito talmente diverso da andarsene ad ammalarsi di tbc a Parigi?
Nel '40 partecipa alla prima mostra collettiva e dipinge il suo autoritratto. Sempre in
quell'anno si laurea e trova subito un posto come assistente presso l'Università, in Mineralogia.
Ma effettivamente quali prospettive potevano esserci nell'insegnamento per uno affetto da palatoschisi
in un paese in cui ormai chiamarsi Daniele o Rachele era sufficente
per vedersi piombare la polizia in casa?
E in ogni caso furono gli eventi a scegliere per lui, anzi il precipitare degli eventi.
Nonostante l'Italia sia ormai da tempo in guerra, la vita continua. All'inizio per chi restava
a casa la guerra sembrava lontana. Del resto la precedente Grande guerra era stata un conflitto di
trincea. La guerra arrivava dai bollettini retorici della radio, dalla pioggia di cartoline precetto,
dai telegrammi che recano le condoglianze di Stato ai parenti dei caduti per la patria, dai primi mutilati
che tornano a casa. Presto, però, la guerra cominciò a cadere sulla testa della gente sottoforma di bombe.
E quelle parole, l'ora segnata dal destino, apparvero in tutta la loro tragica follìa. All'inizio c'erano
soltanto le sirene, gli allarmi poi rientrati, le corse della gente in cantina dove ridevano e scherzavano.
Una sera erano come al solito riuniti in salotto, il professor Gabriele a fare un solitario a carte,
sòra Giulia a sferruzzare, Mario ovviamente a disegnare con le matite un paesaggio coi cipressi, quando
udirono una serie di schianti lontani. Si precipitarono alla finestra. Verso Pisa si vedeva un lampeggiare
continuo accompagnato da botti e rombi cupi. Durò un'ora.
Il giorno dopo Mario prese il treno come sempre, per raggiungere l'Università,
dove era Incaricato Assistente in Mineralogia. Scese alla stazione di Pisa e iniziò a camminare verso il Corso,
all'indirizzo dell'Università. Dovunque c'erano macerie fumanti e poi,
distesi sui marciapiedi, cadaveri gonfi, gonfi da far impazzire
Dopo dieci minuti non resistette più. Girò sui suoi tacchi e tornò di corsa alla stazione.
Non andò più a Pisa. Non si mosse più da Livorno. Neanche per andare in campagna a dipingere.
Finché furono costretti a sfollare.
Livorno ormai era a ridosso del fronte. Si era formata la cosiddetta linea gotica, ovvero
un confine che spezzava la penisola in due, a sud il regno d'Italia ormai terreno di risalita
degli Alleati, al nord una repubblica fantoccio, nominalmente nella mani di Mussolini, nei fatti
occupata dai tedeschi.
Tutte le città vicine alla linea gotica venivano sistematicamente bombardate. L'intera famiglia
Nigro si trasferì nelle campagne lucchesi ma dalla guerra ormai nessuno riusciva più a sfuggire.
Era la guerra che ti veniva a cercare, dovunque.
Era una bella mattina di sole quando bussarono alla porta. Si udivano frasi secche, in tedesco.
Si guardarono tutti in faccia, terrorizzati. I tre maschi avevano superato da un pezzo i vent'anni.
Potevano essere presi benissimo, per combattere o altro.
Vennero nascosti nel lettone matrimoniale tra le reti e i materassi, con mio nonno avvolto nelle
coperte che arrivavano fino al pavimento, che si fingeve gravemente ammalato e contagioso.
Qualche settimana dopo i soldati nazisti tornarono e i giovani della famiglia
Nigro si tuffarono in un fosso pieno di sterpi. I soldati, incarogniti e ottenebrati dall'ideologia,
si misero a camminare avanti e indietro proprio
lungo il fosso. Mario si chiedeva se a quei soldati, che in definitiva erano ragazzi come lui, non venisse
mai il dubbio di essere solo carne da macello, mandati lì da chi li aveva indottrinati per anni, da
chi li aveva fatto il lavaggio del cervello utilizzando tutti i mass-media dell'epoca per farne un
esercito di burattini. Intravedeva al di là degli sterpi gli
stivali neri che si avvicinavano. Lo vedeva procedere a mitra spianato. Sarebbe bastato un colpo di
tosse, uno starnuto irrefrenabile, la saliva che andava di traverso, che tutto sarebbe finito.
Qualche minuto che durò una vita, poi se ne andarono.
Da tanto tempo Mario si chiedeva che senso avesse quell'uniformarsi di tutti al volere di un
manipolo di esaltati. Compiere tutti gli stessi gesti automatici, salutare in quel modo, parlare
in quel modo, dire tutti le stesse cose, vestirsi come pagliacci. All'improvviso gli erano sembrati tutti ridicoli,
tragicamente ridicoli. Era come un gioco che stava però per finire male, malissimo.
Negli anni dell'Università aveva fatto parte del Guf, organizzazione universitaria del
regime, che poi in pratica era la culla dell'antifascismo, almeno di quello colto, intellettuale.
L'antifascismo, per lui, dapprima era semplice insofferenza per la disciplina.
Poi diventò contrarietà verso il conformismo.
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